Vittorio Giacopini, Il manuale dell’eremita, Edizioni dell’asino, Roma 2018.
Fondamentalmente si tratta di una guida senza spiegazioni. Chi apre il Manuale dell’eremita di Vittorio Giacopini non sa davvero se si trova di fronte a un romanzo, a un saggio, a un memoir dell’autore. Il volumetto è una riflessione culturale dipanata srotolando un filo conduttore deliberatamente sottile, quello dell’isolamento -ora imposto dal mondo, ora ricercato- dell’uomo creativo. Compendio di filosofi, pittori, scrittori, registi e musicisti che hanno fatto del romitaggio una caratteristica della propria esistenza o che si sono confinati per lunghi periodi in posti irraggiungibili, esiliati dal mondo. Non sempre si isolano per produrre delle opere, spesso il loro esilio si configura come un naufragio, un accidente della vita. Difficile comunque tenere insieme Ludwig Wittgenstein, Giorgio Morandi o Malcom Lowry. Meglio, come fa l’autore, proporre per ciascuno di loro dei lampi, mostrare dei brevi frammenti biografici, gettare al lettore qualche amo. E’ vero che si tratta di un manuale, ma è altrettanto certo che l’isolamento dei personaggi indagati, tutti complessi da decifrare nelle loro idiosincrasie, non consente facili risposte che Giacopini non intende fornire.
Le pietanze in menu sono tante. Io scelgo le pagine esilaranti dell’esilio di James Joyce a Roma e il profilo sugli ultimi anni di vita di Georges Méliès, il dimenticato creatore “di mostri di cartapesta, immaginari” e di quello straordinario documento del cinema che è Voyage dans la Lune (1902), il film che fa debuttare la fantascienza sullo schermo. Secondo Méliès il cinema è un arte unica “il prodotto di tutte le arti”. Il razzo del film che si incastra nella Luna, parla in realtà della Terra e avvia il Novecento.
Un anno prima del volo dei Wright, l’anno in cui Lenin si chiede Che fare?, Méliès ha già la risposta pronta, cioè un’idea piuttosto ben definita dei guasti sogni che vuole spacciare come una drogao una pozione magica per incantare un pubblico riluttante” (p.29-30).
Agli appassionati di musica segnalo in particolare un capitolo che sceglie di raccontare “una storia segreta” degli anni Sessanta, seguendo un filo che parte da un film di Luis Buñuel, Simone del deserto, per tracciare un percorso accidentato ma fascinoso tra John Coltrane, Bob Dylan, Mississippi John Hurt. La lettura svela quali sono i legami tra questi artisti immaginati dall’autore.