Quantcast
Channel: Recensioni – i grandi classici
Viewing all articles
Browse latest Browse all 12

Lo sceicco di Chicago… David Mamet

$
0
0

Intitolare un libro Chicago (punto!) è piuttosto impegnativo. Gli immaginari che scatena questa città sono quasi pari a quelli di New York e Los Angeles e Chicago è anche il titolo di un musical e del conseguente film tratto da con Richard Gere e Catherine Zeta Jones; una pellicola che ha fatto incetta di Oscar. David Mamet ha le spalle abbastanza larghe da poterselo permettere: nel dubbio si può dare una occhiata alle sue referenze come sceneggiatore al servizio di Bob Rafelson (Il postino suona sempre due volte), Sidney Lumet (Il verdetto) e Brian De Palma (Gli intoccabili), oppure alla carriera come regista, premiata a Venezia (La casa dei giochi) o ancora a quella di saggista. Come scrittore invece Mamet è meno prolifico e questo romanzo è il frutto di una elaborazione ventennale. La Chicago di Mamet è quella dei ruggenti anni Venti: la Prima Guerra Mondiale alle spalle, Al Capone in città, proibizionismo di facciata e alcool a fiumi, tanti soldi in movimento e tanto jazz nei locali notturni. Il Mamet scrittore è una piacevole scoperta: se è vero che molto del flavour nella scrittura hardboiled si gioca attraverso i dialoghi qui siamo al cospetto di un maestro. I battibecchi tra il protagonista Mike e il suo collega al Tribune Parlow (i due lavorano come cronisti) sono capolavori. Mamet ha un orecchio formidabile per stendere sulla pagina dialoghi non solo verosimili, ma anche freschi, che spesso partono a metà, con tutti i non detti e le frasi tronche che si possono scambiare due colleghi di scrivania (e scorribande). Come giustamente scriveva Chandler per ottenere un dialogo verosimile serve molto lavoro. Il verosimile è un’invenzione. Mi immagino Mamet passare i suoi venti anni di lavoro a limare e rifare i dialoghi. Qualche giornalista ha tirato in ballo Hemingway, altri Cormac McCarthy o Salinger. Finora si tratta solamente di frasi roboanti da “fascetta pubblicitaria” a cui francamente non si può dare credito. Quello che si legge invece è un autore geniale nei dialoghi, attento alla ricostruzione storica del periodo, al melting pot (la sua Chicago divisa tra criminali irlandesi a nord, italiani a sud contempla anche tutta la gamma possibile del mix razziale,dai neri, agli immigrati polacchi, ai cinesi e, buoni ultimi, gli anglosassoni purosangue), capace di penetrare un ambiente (quello del giornalismo e segnatamente della redazione cronaca) e raccontare insieme una storia dalle tinte noir, con tanto di indagine e colpevole. Va detto che a Mamet la trama non interessa poi molto, passa decine di pagine a preparare il terreno, a raccontare Chicago, a farci divertire con i dialoghi (è così bravo che decide di raddoppiare e dopo qualche capitolo troviamo Mike a impegnato a chiacchierare –oltre che con il suo sodale Parlow- con la navigata tenutaria di un bordello di colore Peekaboo, che lui raggiunge spesso dopo il lavoro. Per lunghezza e numero di capitoli il romanzo è spaccato esattamente in due. Sembra un film, che nel secondo tempo con lo stesso minutaggio del primo si concentra tutta l’azione. D’altronde Mamet è un richiesto sceneggiatore… Comunque dopo la prima parte preparatoria la seconda scivola rapida. Per fortuna le indagini di Mike per dare un volto all’assassino della sua amante sono degne del suo status di cronista di fiuto del Chicago Tribune;  quindi cammina e fa domande. Altri ottimi dialoghi per il lettore… mentre Mike gira quartieri ricchi e poveri, entra in tabaccherie di lusso e negozi di fiori gestiti da immigrati, parla con poliziotti e avvocati. La trama alla fine si dipana rapida, anche perché il libro chiede di essere letto rapidamente. Forse se mettesse addosso una qualche inquietudine filosofica o facesse ribollire il sangue per qualche nobile motivo entrerebbe nel novero dei grandi autori americani. Ma forse il momento storico non è incline alla letteratura di impegno morale (o di vibrazione immorale). Se entrerà nella storia lo sapremo poi; ovviamente serve tempo prima che si emani il decreto “capolavoriale”. E torniamo alla musica di Chicago (il libro). Ci sono i locali dove si beve e balla, quelli dove si gioca, quelli della droga o del sesso clandestino. Il jazz ovviamente è presente (e come non potrebbe visto che uno stile classico prende il nome dalla città); dominano le canzoni famose in quegli anni, che vengono canticchiate dai protagonisti della storia: Frankie e Johnnie, Bye Bye Blackbird, Remember. Un assaggio lo vediamo nello scambio di battute tra Parlow e Mike sull’amante di quest’ultimo, una virginale giovinetta repressa dal contesto familiare religioso e tradizionalista. Ecco la perplessità di Parlow: “Una ragazza così ben piantonata da non avere mai sentito The Sheik of Araby nella versione del testo sconcio, che gusto c’è a deflorarla? Adesso non venirmi a dire ‘Tutti devono cominciare da qualche parte’”. Colonna sonora The Sheik of Araby nelle versioni di Fats Waller o Louis Armstrong e off topic in quella dei Beatles.

David Mamet, Chicago, Ponte alle grazie, 2018.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 12

Trending Articles